Canzone e pregiudizio al Festival. Evviva Sanremo
–Canzone e pregiudizio al festival? No, almeno non questa volta. È un’affermazione che scaturisce da un’analisi del libro “Evviva Sanremo” che leggeremo sotto. Pubblichiamo quest’articolo, proprio al termine del Festival vinto dai Måneskin. Una edizione, la settantunesima, mai cosi improbabile e difficile. Proprio per questo è giusto celebrare questo evento con un titolo perfetto. Evviva Sanremo!–
Il Festival di Sanremo
Il Festival di Sanremo è sempre stato lo specchio della cultura canzonettistica italiana, ciò che l’industria discografica nazionale ha reputato, anno dopo anno, la musica che gli italiani avrebbero gradito ascoltare, cantare, fischiettare. Per cui attorno al Festival si sono affastellati tutti i pro e i contro. Le disfide e gli afflati, gli slanci e le ritrosie che appartengono al popolo dello Stivale, e ci siamo tutti quanti provati nella critica o nell’elogio di questo e quell’artista, nel denigrare o esaltare, assecondando i nostri umori e qualche volta le nostre frustrazioni.
Evviva Sanremo
Evviva Sanremo è il provocatorio titolo che due dei migliori “analisti” della canzone hanno voluto dare al loro libro, specificando il percorso che hanno intrapreso nel sottotitolo “Il Festival della Canzone Italiana tra storia e pregiudizio”. Paolo Jachia, docente di semiotica presso l’Università di Pavia, e Francesco Paracchini, critico musicale e direttore della rivista L’Isola della musica italiana, che da molti anni presenta grandi ed emergenti artisti della canzone, hanno rappresentato e raccontato in questo libro, edito da ZONA Music Books, l’evidente pregiudizio che da sempre, o almeno da molti decenni, accompagna il Festival di Sanremo. Perché la fantastica storia del Festival, e quindi della canzone italiana, è sempre stata accompagnata dal giudizio precostituito verso la “canzonetta”. Il “facile” in musica, lo scontato e la banalità di canzoni che, per altro, magari non volevano esser altro che divertenti e semplici da ricordare.
La canzone di qualità
“Spesso, troppo spesso, si è soliti individuare la canzone di qualità nella cosiddetta canzone d’autore, che come è noto trova il suo terminale nella fondamentale rassegna del Premio Tenco, fin dalla prima edizione ospitata proprio al Teatro Ariston, e di contro identificare come canzone leggera, commerciale, quella che transita sul palco sanremese i primi mesi di ogni anno. Questa semplificazione tranchant ci serve per chiarire subito che il discorso e molto più vasto di quello che si vuol credere. Che forse è arrivato il momento di fare un ragionamento di più ampio respiro”, spiegano i due autori.
Quando Domenico Modugno
Per avviare il ragionamento, partono dal 1958, quando Domenico Modugno presenta qualcosa che mai si era ascoltato prima. “Il primo violento pregiudizio verso il Festival è che la canzone – spiegano ancora Jachia e Paracchini – sia musica leggera, e la musica se è leggera non è una cosa seria, è come qualcuno con cui divertirsi, ma mai impegnarsi”. Nel blu dipinto di blu è considerata la “madre” della canzone d’arte che qualche anno dopo avrebbe cominciato a far breccia nella discografia italiana, trovando il proprio habitat nelle trasformazioni sociali degli anni Sessanta e Settanta.
È da quel momento che inizia un percorso complesso. Anche contraddittorio, attraverso il quale la canzone italiana si è legittimata come forma d’arte e di cultura. Magari proprio a partire dal semplice gesto di Modugno di allargare le braccia al termine della propria esibizione al Festival. Un gesto che non si era mai visto, che mette al centro l’interprete (anche) per il suo essere personaggio. Per il suo valore sociale di artista a tutto tondo e non solo come replicante di melodie e parole scritte da altri, che doveva solo porgere nel modo più appropriato la “canzonetta”. Com’era conosciuta sino ad allora, senza scomporre alcun equilibrio.
Il secondo pregiudizio
“Il secondo, grande pregiudizio”, affermano ancora i due autori del libro, “è che la musica leggera sia stupida, poco utile. Mentre invece la musica dei cantautori, tutti, sia arte e cultura, perché i cantautori sono autori della musica e delle parole”. Ecco che il pregiudizio si allarga, ma cozza contro alcune forti contraddizioni, tutte canore: come classificare fenomeni come Lucio Battisti e Adriano Celentano? E come quel lavoro d’equipe rappresentato dai “complessi” prima e poi dai gruppi rock? Come trovare un equilibrio tra la canzone leggera, popolare e i tanti pregiudizi che da sempre l’accompagnano?
Interpreti e anche autori
Forse gli anni più recenti hanno permesso di appianare questo contrasto. Molti dei giovani artisti che formano il cast del Festival di Sanremo 2021 si presentano come interpreti e anche autori delle proprie canzoni. Da una parte il rap e la sua forza espressiva. Dall’altra l’allargamento delle talvolta rigide maglie che parevano imbrigliare la canzone d’autore, hanno permesso alla canzone di restare magari semplice, “facile”, immediata, ma anche complessa, importante, socialmente impegnata. E, diciamolo, spesso bella quanto cantabile e ballabile.
Canzone “leggera” e canzone “impegnata”
Fenomeni popolari recenti come Francesco Gabbani, Lo Stato Sociale, Ermal Meta, lo stesso Bugo, che pratica la canzone d’autore da tanto ma solo di recente ha trovato una certa notorietà (grazie anche al complice disaccordo con Morgan della scorsa edizione del Festival, un altro genio della canzone tanto d’autore quanto popolare), rappresentano esempi di quel superato dilemma tra canzone “leggera” e canzone “impegnata”, per arrivare alla sintesi di una canzone di qualità, che può piacere o non piacere, ma si presenta nella sua integrità e senza il velo del pregiudizio.
La canzone è tante cose
“Si inizia insomma a capire che la canzone è tante cose. Tanti generi con relative varianti, come lo sono la pittura, il cinema, la televisione”. Concludono la loro introduzione al libro Evviva Sanremo i due autori Paolo Jachia e Francesco Paracchini, “e che talune canzoni salano il sangue della gente, segnano il cuore e la mente, altre invece svaniscono come brutte barzellette o parole inutili. Si torna quindi ai fondamenti del concetto stesso: che l’arte sia, cioè, qualcosa che spezza il tempo della quotidianità e ci mette in un tempo altro”. Almeno, per il tempo di una canzone, di un ascolto in radio o in cuffia, liberi di ascoltare musica anche solo perché ci piace e ci diverte.