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Etna: la vetta superba che si slancia verso il cielo

Lava nera e cielo azzurro. Segnali di fumo dalla terra.

Etna

Etna. “…la vetta superba dell’Etna che si slancia verso il cielo, e le sue vallate che sono già tutte nere, e le sue nevi che risplendono degli ultimi raggi del sole, e i suoi boschi che fremono, che mormorano, che si agitano…” queste le bellissime parole scritte da Giovanni Verga nel suo romanzo “Storia di una Capinera”. Viaggi e emozioni come sempre. Da un capo all’altro del mondo. Dalla montagna sacra della Cina, alla montagna di lava della Sicilia.

La signora, sua Maestà.

La Signora, sua Maestà.

Così la chiamano da queste parti. Nei sonni venuti male sul furgoncino Volkswagen durante il mio tragitto dalla Calabria alla Sicilia già fantasticavo sull’Etna. Adesso sono qui e mi sento poco più di nulla dinanzi a lei, briciola cascata da un tavolo domenicale. Il suo vestito nero pece calato fino ai piedi, i fianchi larghi portati con fierezza, e le sue inquietudini color cenere sbuffate dal cratere centrale. Se potesse parlare la Montagna direbbe “stai attento ragazzo”, se potesse guardarmi lo farebbe con gli occhi di un madre che potrebbe non volermi perdonare.

Etna è donna per i catanesi

L’Etna che fuma

Catania, invece, se ne sta lì sotto, meno spavalda di altre città che si credono immortali, stritolata tra vulcano e mare.

Essere catanesi deve essere un eroico atto di fede verso Madre Natura. Ascoltando i racconti dei locali sulla Montagna ho apprezzato il rispetto che nutrono verso essa. Guai innanzitutto a chiamarlo il vulcano, al maschile. Etna è donna e i catanesi lo puntualizzano fin da subito. D’altronde la storia di una città non si trova nella brochure dei musei ma tra le labbra della gente. Di loro mi piace l’estremo realismo: noi stiamo qui finché la montagna lo decide, dicono chiaramente. Edificano una vita cittadina a termine in sostanza, ma non per questo recriminano. Negli occhi all’insù di un catanese troverai sempre rispetto e venerazione, mai risentimento. Un legame doppio nodo tra città e montagna. Si scrive Catania, si legge Etna.

Sono a 2900 metri sul livello del mare

Grigio ma è vita

Sono a 2900 metri di altitudine. Il sole svogliatello non ammorbidisce un freddo che penetra le narici congelando un paio di pensieri rimasti incompiuti. Ad ogni passo, sotto ai piedi mi scricchiola lava secca. Sembra di camminare dentro la bottega di un vetraio che stufo del suo lavoro ha lasciato cadere giù tutte le sue creazioni. La Terra emana un calore naturale che trapassa le suole delle scarpe entrando sottopelle. Mi chino e la tocco con le mani mentre un ciuffo mi cala sugli occhi facendoli chiudere di riflesso. Si impolverano le mani e i momenti in cui ho creduto fosse sacrosanto vivere sigillato nel cemento delle città. Il pericoloso respiro della montagna viva mi scivola tra le dita, io non sento la necessità di combattere il timore che si genera in me.

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Di questo viaggio voglio conservare anche le mie paure.

La bellezza si prende la scena

Vedo altri crateri della Montagna più in là, la bellezza dello scenario è disarmante. D’intorno un paesaggio tutto a sfumature di nero. Ogni tanto si intravede persino qualche fiore spuntare in mezzo alla terra nerissima della montagna. Piante verdi e gialle riemergono da sotto terra. La potenza di un fiore sfida le debolezze di un vulcano. Penso che ho creduto a Dio in ogni luogo tranne che in chiesa e laddove c’è Natura viva, a mio parere, risiede una quota significativa di divinità. E al diavolo la casualità, che non esiste.

Un vulcano fiorito appoggiato ad un mare cristallino non rientra nelle faccende del fato, ma di una precisa volontà.

Il cratere e il rispetto

ll cratere sputa un’altra densa colonna di cenere grigia, io sorrido la piccolezza del mio ruolo nel mondo. Mi circola nelle vene il desiderio di raggiungere la vetta, ignorando i divieti, i segnali di pericolo e il buio che lemme arriverà. Mi rimbalza impazzita nella mente la parola rispetto. Rispetto, lo scandisco ad alta voce. Rispetto, ancora. Se la porta via il vento la parola. Di tutte quelle che ho smarrito, questa è la più dolce. Metto le mani in tasca e torno indietro. Rispetto.

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