Oggi nasceva il grande della drammaturgia del ‘900 Luigi Pirandello
Pirandello
Non si può negare che Pirandello oramai sia un classico. Il termine ‘classico’, è bene ricordarlo, deriva dal latino classis, ovvero il testo che di norma i ragazzi dell’epoca latina portavano nelle aule. Una grammatica, un testo normativo, un volume o un autore paradigmatico, un Cicerone per la prosa, un Virgilio per la poesia, un Prisciano nella tarda latinità.
Pirandello siciliano che non ama il dialetto come strumento letterario
Luigi Pirandello, nato nella contrada Càvusu di Girgenti in provincia di Agrigento il 28 giugno 1867, pervade buona parte della cultura novecentesca in senso ampio, sotto varie forme. Come una sorta di intertesto (o di sottotesto) latente di opere teatrali, narrative, cinematografiche, ma anche come parte del discorso comune. Rispetto a D’Annunzio che non rinuncia alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale, innovatore del verso carducciano che giunge ad una musicalità estrema proprio col ritmo e il sistema pre e post endecasillabo, caro alla poesia ellenica, Pirandello è l’esatto opposto.
Fu diffidente verso il dialetto come strumento letterario. La sua lingua sceglie un italiano medio tendente allo standard. Fondandosi su una sintassi equilibrata e mai troppo sbilanciata verso il parlato, su un lessico comune.
Liolà
La parlata di Girgenti fa il suo esordio nella scrittura drammaturgica già nel 1916 all’altezza della composizione di Liolà (che verrà pubblicato l’anno seguente). Un’opera nodale nella elaborazione del pensiero teatrale di Pirandello. Esaltata anche da Antonio Gramsci che a riguardo si espresse così:” C’è implicito in Liolà tutto il teatro di Pirandello, ma come sentimento più che come proposito, come teatralità episodica e comicità tenue più che come integra personalità ideale. […] Liolà è opera d’arte perché la purezza creativa deve essere serena, come un mondo che scaturisce tutto organicamente da un suo centro, e ha in sé la sua misura e il suo limite, non in uno sterno criterio di verisimiglianza”.
In Liolà infatti si coglie l’esigenza dello scrittore di creare un teatro nazional-popolare, definito da lui stesso in questa forma. Che non fosse solo ad uso esclusivo della borghesia, ma che potesse estendere la propria fruibilità anche al proletariato.
L’autonomia dei personaggi dall’autore
Nella sua opera teatrale Pirandello sviluppa la teoria della autonomia dei personaggi dall’autore. Accentua l’aspetto dissacrante e autocritico del lavoro artistico: l’opera diventa beffa e parodia di sé stessa, come stava accadendo nel coevo teatro di avanguardia europeo. La riflessione sull’autonomia dei personaggi muove dalla teoria verghiana dell’autonomia dell’opera rispetto al proprio autore. Dall’autonomia dell’opera a quella dei personaggi il passo è breve. Il personaggio si stacca dal suo creatore e segue la sua logica, anche a dispetto delle diverse intenzioni dell’autore.
Il personaggio deve seguire la logica del proprio carattere, identificarsi nella sua maschera, ridursi a pochi tratti, costanti ed essenziali. Capovolgendo gli usi del teatro borghese allora più diffuso, che muoveva invece dall’ideazione della trama e della vicenda, Pirandello afferma con forza la priorità logica e cronologica dell’intuizione di un carattere-maschera centrale. Attorno a cui e in dipendenza da cui deve poi svilupparsi l’opera. È l’invenzione del personaggio a determinare l’intreccio, e non viceversa.
“L’uomo dal fiore in bocca”
Prendiamo in esame L’uomo dal fiore in bocca. Breve atto unico tratto dalla novella La morte addosso, che debuttò al Teatro Manzoni di Milano il 24 febbraio 1922, uno dei testi teatrali più intensi e verticali del grande drammaturgo. Come sapranno in molti si tratta del dialogo al caffè di una stazione tra un uomo malato di tumore e un avventore scialbo e indifferente. Con questa novella Pirandello affronta il dilemma di come si pone l’uomo davanti alla morte mettendo in evidenza come cambia radicalmente il modo di vedere il mondo, la propria esistenza e quella degli altri.
Anche gli accadimenti più ovvi e scontati acquistano una luce nuova e un’importanza vitale. Davanti al protagonista c’è l’uomo comunecon i suoi problemi di tutti i giorni e con le sue preoccupazioni più o meno banali, la cui mente si è appannata con la monotonia e la banalità del vivere quotidiano. La scelta linguistica dell’autore è come sempre quella di un italiano tendente allo standard. Si fonda su una sintassi equilibrata mai troppo sbilanciata in direzione del parlato e su un lessico sostanzialmente comune. L’espressività che esce fuori deriva dal ritmo dei periodi a cui contribuiscono i rallentamenti, le pause e le accensioni improvvise.
L’esca narrativa
Ad un certo punto l’autore piazza l’esca narrativa con un passaggio che induce l’interlocutore ad una risposta obbligata: “è stato mai a consulto da un medico bravo?” Da qui si apre il dramma di chi chi spiega come la sua condizione lo spinga al bisogno di penetrare nella vita degli altri cercando di ricostruirne il modo di essere di quegli sconosciuti, di cui egli osserva con pignoleria ogni particolare per cercare di comprendere la natura di essere persona.
Insomma un capolavoro in cui emergono alcune delle tipiche tematiche pirandelliane. Il relativismo della realtà, per cui il quotidiano, tanto banale per alcuni, acquista agli occhi di chi sia vicino alla morte ben altra valenza e l’incomunicabilità tra gli uomini che deriva dal capovolgimento dell’ottica in cui ognuno si pone. Ogni uomo si costruisce una propria realtà e una propria verità che non sono comunicabili. Ciò condanna l’uomo ad essere incompreso e solo.