E se il medico tornasse paziente?
“Cogito, ergo sum” è tutto in questo concetto Cartesiano che si potrebbe riassumere l’articolo del nostro Direttore. Riflessioni di chi pensa, non provocazioni, ma riflessioni. Medico e paziente in una sorta di vicinanza cognitiva con un altro articolo apparso sulle stesse nostre colonne: Se fosse l’insegnante a sedere sui banchi di scuola? Bello pensare. No?
Medico e paziente
Nonostante i progressi straordinari della medicina, soprattutto nelle tecniche diagnostiche, il paziente di oggi non è soddisfatto dei medici. Non si fida più del medico curante e, quel che è peggio, il medico non si fida più del paziente. A nostro avviso, l’errore commesso dalla scienza medica è stato quello di non discostarsi dai dogmi del paradigma scientifico che fa capo a Galilei-Cartesio-Newton, secondo cui l’essere umano è una macchina da studiare con metodo scientifico, basato sulla riproducibilità degli esperimenti. Dovresti ammettere a te stesso che questo è stato un grosso errore di valutazione.
Né macchina e né operaio
Il corpo umano non è una macchina assemblata in vari pezzi e il medico non è un operaio specializzato in quello e quell’altro organo tanto da fargli perdere il più delle volte la visione d’insieme. Il paziente non è un papilloma o una colicisti, è una “persona” cui non vanno sottratti rispetto e dignità umana nel momento della necessità. Eppure, i vari protocolli di ricerca cui viene sottoposto in qualche frangente, danno l’impressione della messa in opera di un tagliando meccanico estremamente accurato per scoprire le cause del malfunzionamento per poi avviare il processo riparativo. Nonostante il rigore della ricerca diagnostica e le conseguenti cure, il paziente muore.
Si moltiplicano i casi di malasanità, con la conseguenza di peggiorare il clima di sfiducia e di diffidenza nei confronti della classe medica, da cui i medici stessi, almeno i più pavidi, cercano di difendersi con la prescrizione di un numero esorbitante di esami diagnostici, in grado di metterli al riparo da eventuali denunce.
Le dichiarazioni di Gino Strada
In questo clima tanto sfavorevole nei confronti del sistema sanitario italiano, destano ancora più scalpore le dichiarazioni del compianto Gino Strada, fondatore di Emergency, secondo il quale “la sanità italiana inventa le malattie per un volere politico”. Ospite di una nota trasmissione televisiva, Gino Strada non trascurò di dichiarare che gli ospedali oggi sono diventati aziende con l’obiettivo non della salute ma del fatturato. Certo è, tanto per fare un esempio, che uno dei più grandi complessi ospedalieri di Roma, il San Camillo, oggi si definisce azienda ospedaliera con circa diecimila amministrativi e tremila medici. Sono numeri che fanno impressione proprio per la loro disparità. Sarebbe stato più logico pensare a diecimila medici e tremila addetti all’amministrazione dei vari reparti.
Corpo e mente sono interconnessi
Corpo e mente sono interconnessi. Ogni nostro pensiero, emozione, intenzione, si ripercuote su tutto il nostro corpo. Ogni funzione del corpo umano è suscettibile ai pensieri e alle emozioni. Le nostre difficoltà emotive spesso si manifestano come sintomi fisici. Il cancro, lo sappiamo, presenta cause diverse, ma un fattore sembra giocare un ruolo più importante di altri ed è la repressione di emozioni negative. È stato dimostrato che generalmente il cancro progredisce più rapidamente nelle persone che si tengono dentro un dolore emotivo spesso accumulato e represso nel corso degli anni. La scoperta importante è che liberarsi di quel dolore può arrestare e persino far regredire il cancro.
Effetto placebo
Se il paziente è sicuro che un certo farmaco lo salverà, stai pur certo che avverrà così perché la guarigione avviene sulla base della sua convinzione personale. In questo caso si parla di effetto placebo. Ebbene, in questi ultimi anni si sono moltiplicati i test scientifici che dimostrano che persone che credono di assumere un farmaco che invece è soltanto acqua e zucchero, in breve si sentono meglio. In un recente test è stata somministrata morfina a pazienti con forti dolori per un periodo di tre giorni, ma il quarto giorno, senza che essi lo sapessero, la morfina è stata sostituita con un placebo, una soluzione di acqua e sale.
Nonostante ciò, i pazienti hanno riportato una diminuzione del dolore proprio come nei giorni precedenti, e ulteriori accertamenti medici hanno persino registrato gli stessi cambiamenti fisiologici che accompagnavano l’assunzione di morfina. La loro semplice convinzione aveva neutralizzato il dolore. Effetti placebo simili a questo si basano sulla totale fiducia, ma tutti possono imparare a utilizzare il potere dei propri pensieri ed emozioni per ottenere effetti benefici sulla propria salute.
La portata delle nostre convinzioni
A questo punto è necessario riflettere sulla portata delle nostre convinzioni e dei pensieri che formuliamo ogni giorno. È possibile, ci chiediamo, che siamo più suscettibili a prendere l’influenza perché per tutto l’inverno leggiamo sui quotidiani o sentiamo dai telegiornali notizie sull’argomento e sulla necessità del vaccino antinfluenzale senza il quale di sicuro ci ammaleremmo? È possibile che basti vedere qualcuno intorno a noi con i sintomi influenzali per ammalarci a nostra volta? Siamo più soggetti a reumatismi, a soffrire di artrite, a vuoti di memoria, debolezza muscolare, calo del desiderio sessuale con l’avanzare dell’età solo perché questa è la versione della verità con cui ci bombardano gli annunci pubblicitari, i programmi televisivi e le notizie riportate dai media? Quali altre profezie auto avveranti creiamo nella nostra mente senza nemmeno accorgercene? E quali presunte verità possiamo invertire con successo semplicemente formulando nuovi pensieri e scegliendo nuovi convincimenti?
Sono i pazienti che sono incurabili non le malattie
Uno studio rivoluzionario condotto alla fine degli anni ’70 mostrò per la prima volta che un placebo può innescare il rilascio di endorfine, in altre parole di antidolorifici naturali prodotti dal corpo. Se è così, non possiamo fare a meno di chiederci: se il corpo umano diventa la farmacia di sé stesso producendo antidolorifici, non potrebbe allora attingere al mix infinito di sostanze chimiche e composti terapeutici che ha dentro di sé e dispensare all’occorrenza altri farmaci naturali che agiscano come quelli prescritti dal medico, o forse anche meglio? Noi crediamo di sì e sai di che cosa ci stiamo sempre più convincendo? Che non esistono malattie incurabili, ma solo pazienti incurabili.
L’effetto nocebo e la terza via
Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia: l’effetto nocebo. Se io focalizzo la mente sulla guarigione, ma d’altra parte rifiuto le cure che mi vengono proposte, oppure non ho fiducia nel medico che mi segue o, ancora, se sono spaventato dalle sensazioni provenienti dal mio corpo sofferente, allora inconsciamente so che non potrò guarire. A questo punto è evidente che la differenza la fanno il pensiero e l’emozione che il paziente lega alla cura, più della cura in sé.
La fede, la fiducia, ossia tutto ciò che stimola l’effetto placebo, condurranno alla guarigione; la paura, la sfiducia e tutto ciò che stimola l’effetto nocebo, condurranno alla morte. Non si scappa.
C’è una terza variabile rappresentata dall’atteggiamento del medico. È importante che il medico curante creda nella guarigione del paziente, creda nella terapia proposta. La sua fiducia, unita a quella del paziente, genera vibrazioni sinergiche che potranno condurre alla guarigione. Eccoci tornati al problema di base: il rapporto medico/paziente. Un primo passo per riportare la medicina a una dimensione umana, olistica, diremmo, è cambiare questo rapporto. Il corpo umano, ripetiamo, non è una macchina assemblata in vari pezzi e il medico non è un operaio specializzato in quello o quell’altro organo. Oggi troppo spesso si sente la mancanza del medico di famiglia, quel medico definito generico perché non specialista, ma che aveva la capacità di comunicare positivamente e d’interagire con il paziente con umanità e fiducia.
Il ruolo carismatico del medico di famiglia
Qualunque sia la specializzazione del singolo, la classe medica sembra non rendersi conto del brusco calo del ruolo carismatico della figura del medico. Nel rapporto diretto con il paziente, quello che nell’antica Grecia era considerato un sacerdote al servizio della comunità ha nella maggioranza dei casi smarrito il suo potere empatico accentuando il grado d’estraneità con il risultato di aumentare lo stato di disagio del paziente stesso.
Già nel colloquio introduttivo medico/paziente esordire informandosi sulle malattie con le quali la persona in oggetto ha familiarità, mi sembra un non senso alla luce delle nuove prospettive della medicina che vedono nella percezione del mondo circostante uno dei fattori di rischio malattia alla pari della cattiva alimentazione, dell’inquinamento ambientale, dello stress.
Sono i programmi del nostro modello mentale che determinano l’insorgenza della malattia, non il suono di una sveglia biologica per cui a un certo momento della nostra vita ci svegliamo malati. È ovvio che, se per gran parte della vita nostra madre ci ha trasmesso il mito della “maglia pesante”, se ai primi rigori invernali non ce la siamo messa, l’infreddatura è dietro l’angolo. Il raffreddore o l’influenza non sono dovuti all’aver preso freddo, ma al convincimento che se non mettiamo la maglietta di lana il freddo ci punirà. Da questo punto di vista, sarà più logico da parte del medico chiederci come sono i rapporti con nostra moglie (o con nostro marito), con i figli, se siamo soddisfatti del nostro lavoro, quali sono le nostre preoccupazioni, le emozioni trattenute e non metabolizzate.
Le discordanze del consulto clinico medico/paziente
Non solo queste sono le discordanze del consulto clinico medico/paziente. Il medico deve prendere in considerazione anche il vissuto soggettivo della persona che si è rivolta a lui, fatto di emozione, preoccupazione, paura e non ripararsi dietro il paravento della fredda neutralità comunicando, nel caso della diagnosi peggiore: “Si cerchi un chirurgo”, oppure “Sistemi le sue cose. Purtroppo, l’esito nefasto dei suoi esami diagnostici, nella migliore delle ipotesi, non le dà che sei/otto mesi di vita”. Quest’ultimo è proprio un caso di vita vissuta: sono le parole che, se non l’avessimo impedite in tempo, un medico avrebbe detto a mio suocero, ricoverato in ospedale per un linfoma. Soltanto che, per fortuna, grazie al suo spirito positivo e combattivo, e alle terapie ricevute nelle quali credeva, mio suocero è vissuto altri dodici anni.
Cosa chiede un malato al proprio medico?
In fondo che cosa chiede un malato al proprio medico? Attenzione, fiducia, disponibilità. Nel rapporto medico paziente i modi e la sostanza della comunicazione hanno un peso ben maggiore di quanto avviene nella maggior parte delle interazioni comunicative di tipo professionale. Il settore medico sanitario è quello nel quale più che in ogni altro ambito professionale, la capacità di comunicare una diagnosi o una terapia senza provocare traumi o inutili stress deve essere di base della preparazione stessa del medico.
Quanti sono i medici che nel momento del consulto sono capaci di mettersi nei panni del paziente? Quanti sono i medici che fanno della puntualità una regola di vita e sono fedeli agli orari di visita per non ingenerare ansie nell’attesa del paziente? E i medici che sono disposti a scrivere referti dettagliati che poi il paziente ama rileggere per capire ciò che era stato detto a voce? E i medici che spiegano in dettaglio le ragioni della somministrazione e l’effetto dei farmaci prescritti? Quanti sono coloro che scrivono in stampatello le proprie ricette per non incorrere nella segnalazione nella quale si attribuisce un terzo degli errori medici alla cattiva grafia degli stessi? Quanti sono coloro che sono disposti ad ascoltare davvero il discorso più volte sconclusionato e confusionario del proprio paziente, dispensando un sorriso di incoraggiamento senza seppellire la testa nella lettura della cartella clinica?
Per una comunicazione davvero efficace e convincente e soprattutto motivante per il paziente, l’utilizzo di una buona dose d’intelligenza emotiva per rendersi speculari nei confronti dell’interlocutore è fondamentale per la creazione di una sintonia istantanea tra medico e paziente.
È difficile tradurre in parole le emozioni
Intanto, nel colloquio con il terapeuta è l’aspetto emotivo dell’infermo che in questa situazione è dominante. Da qui nasce la sua difficoltà di esprimere in termini esaustivi le proprie condizioni di salute per il semplice motivo che è sempre complicato riuscire a tradurre in parole che non siano approssimative le proprie emozioni. Primo compito del medico nel consulto è l’ascolto attivo. Grazie ad esso è in grado di valutare il linguaggio impiegato, il paraverbale in uso e il linguaggio non verbale.
Nell’istante stesso in cui il paziente, grazie alla capacità comunicativa del medico, riconosce nell’interlocutore un alleato, qualcuno nel quale riporre la propria fiducia, questo è il momento per il medico stesso, una volta ottenute grazie a domande pertinenti le informazioni basilari senza generalizzazioni, cancellazioni, distorsioni da parte del paziente, non solo dei sintomi ma per quanto possibile delle cause psicologico-emotive che stanno alla base della malattia, è il momento, dicevamo, di guidarlo a uscire dalla spirale d’angoscia nella quale è precipitato e di trasmettergli una fiducia totale sulla reciproca complicità e condivisione dell’obiettivo comune, la guarigione.
Cum-patior
In conclusione, il compito del medico è sì occuparsi della malattia, ma senza perdere di vista il paziente. Diremo di più, forse l’aspetto più importante del rapporto è alleviare le sofferenze “prendendosi cura” del paziente. Ancora di più oggi, in una società italiana divenuta multietnica, il medico entra in contatto con culture diverse che, tuttavia, proprio per questo necessitano più di altre di quella carica umana fatta di disponibilità, comprensione, ma soprattutto di compassione nella precisa accezione del termine, cum-patior, soffrire insieme, che rappresenta il primo passo del processo terapeutico che condurrà alla guarigione del corpo e dell’anima.
In definitiva, se uno dei dettami di base del giuramento d’Ippocrate è quello di non nuocere al paziente, proprio di questi tempi in cui sembra essere la politica a dettare i protocolli terapeutici, vediamo di rammentare a chi ci dovrebbe sottoporre una cura di essere un medico e non soltanto un semplice laureato in medicina.
Giornalista – Direttore Responsabile Globe Today’s