Il monologo nato l’8 di marzo. Non chiedetemi perché

Il monologo secondo Treccani
Un monologo o il monologo secondo Treccani. “Si definisce monologo, un discorso continuato, soprattutto orale ma anche scritto, tenuto da una sola persona che si rivolge a sé stessa o ad altri, dai quali non attende o non ammette risposte o critiche, e con i quali non intende stabilire un dialogo”. Era appena terminata la serie” Tratta da Secolo Focaccia e Fantasia” con un articolo che “parlava di scossa”, che iniziamo quella nuova con un monologo specialissimo.
Era l’8 di marzo
Chi si sarebbe mai aspettato un evento tanto devastante come quello che abbiamo vissuto nel 2020?! Era l’8 di marzo, con mia moglie facevo una gita a piedi fino alla chiesa dell’Eremo di Sant’Alberto, a Genova, in una bellissima e surreale giornata di sole. Camminando seguivamo la partita del Genoa che, allo stadio di San Siro, a porte chiuse stava vincendo 2 a 1 contro il Milan. Alla fine dell’incontro, finalmente fuori dalla zona rossa della retrocessione, dissi: “Se il campionato finisse qui, saremmo salvi!”. Questa frase l’avremo detta almeno mille volte negli anni, eppure quella volta aveva un sapore diverso, il sapore amaro della realtà: il campionato poteva finire, per davvero. A causa del corona virus, o Covid-19, le scuole erano chiuse dal 24 febbraio, i ristoranti chiusi dopo le ore 18 e molti esercizi stavano per tirar giù le saracinesche.
Da lunedì 9 marzo mi barricai in casa uscendo solo per buttare la spazzatura o accompagnare mia moglie Laura da suo padre che ha novant’anni e vive solo.
La settima successiva
La settimana dopo, al supermercato stavamo facendo la spesa più surreale della mia vita: le persone tutte fuori, in coda con il carrello vuoto, i guanti e la mascherina. Tutti restavano a distanza di sicurezza, anche se si conoscevano. Nessuno parlava, sembrava di essere in un film catastrofico post-bellico. Mi correggo, eravamo in un film catastrofico, ma serviva reagire. Il bacillo era in tutto il mondo, in tutta Italia, a Genova, forse nella via e nel palazzo dove abitiamo. Serviva una reazione matura, intelligente. Ecco perché poco prima che entrasse al supermarket, ordinavo a mia moglie di comprare tre bottiglie di Chianti.
Il giorno prima l’avevo spedita in farmacia a prendere del Lexotan, insomma, ero armato fino ai denti. E sono rimasto a casa, rispettoso dei divieti. Ci salvava il terrazzo, dove nei giorni di segregazione ho fatto qualche lavoretto di abbellimento, ci salvava la casa, bella e confortevole, ci ha salvato la nostra voglia di vivere insieme. Al supermercato, in farmacia e da mio suocero ho sempre mandato la mia dolce metà, che tanto per le precedenti due settimane era andata in giro per lavoro. Io m’ero barricato in casa: se proprio dovevo prendere il corona virus, lo avrei accettato solo da lei.
Alla fine della segregazione forzata, che durò fino al 2 di maggio, me ne uscii con questo dissacrante monologo.
Il monologo
Superata la prima fase, in cui regna la paura di beccarsi il virus, il problema più fastidioso che si ha uscendo di casa è quello di dover obbligatoriamente usare la mascherina protettiva. Come primo accorgimento per evitare pruriti, ho tolto la mosca da sotto il mento e i miei baffetti da sparviero, che tante soddisfazioni m’hanno dato in un passato molto remoto.
La mascherina va messa in un solo modo: coprendo bocca e naso, altrimenti è inutile se non dannosa (il danno s’arreca al portafoglio nel caso si incontri uno zelante tutore dell’ordine pubblico). Ad esempio c’è gente che passeggia tenendo la mascherina sul mento e la tira su coprendo le cavità solo quando incontra qualcuno. Ho provato pure io a fare così, ma con la mascherina sul mento, gli elastici spingono sull’attaccatura delle orecchie rendendomi molto somigliante al nano Cucciolo di Biancaneve.
Un “indispensabile” capo di abbigliamento
Che la mascherina sarebbe diventata a tutti gli effetti un indispensabile capo d’abbigliamento lo si poteva capire fin dall’inizio: non se ne trovavano. I supermercati, tabaccherie ma soprattutto farmacie esponevano in vetrina un cartello che inequivocabilmente riportava: “Mascherine esaurite”. Un po’ più in alto, un altro cartello: “Vietato l’ingresso senza mascherina”.
Scomparse! Volatilizzate! Svanite, proprio come ci sarebbe piaciuto veder svanire il corona virus. Nonostante le raccomandazioni di medici e scienziati di cambiare la mascherina ogni dodici ore liberandoci di quella vecchia, molte famiglie (ad esempio la mia) hanno tirato avanti per settimane con una sola mascherina usa e getta, trasformandola in usa e passa.
Faidate no dai…
Per essere in regola con la legge e con la salute, c’è chi ha osato ricorrere al faidate sfoderando protezioni improponibili. Nei primi giorni dell’emergenza, in coda con me al supermercato ho visto persone indossare un mezzo reggiseno, qualcuno con malcelato orgoglio, un bicchiere in plastica bucherellato, qualcun altro aveva addirittura azzardato il bottiglione dell’acqua da 5 litri, senza il fondo, calato in testa a mo’ di casco protettivo con qualche buchetto per l’aria. Però, essendo trasparente, mostrava naso e bocca, organi che, col passare del tempo sono diventati tabù. Speriamo non succeda, ma il rischio è che tra qualche anno chi mostrerà naso e bocca in pubblico potrebbe essere denunciato per oltraggio al pudore.
Certo, che l’emergenza non sarà di poche settimane s’è capito soprattutto quando, superata la prima fase in cui le mascherine non si trovavano proprio, siamo arrivati alla circolazione di modelli firmati da grandi stilisti, per non dire di quelli col simbolo della squadra del cuore.

Nei primi giorni di comprensibile smarrimento, le televisioni e i social ci hanno dato dentro di brutto col terrorismo psicologico, ma del resto per molti giornalisti sguazzare nel torbido è sport nazionale, figurarsi quando il torbido è legittimo. Così ci siamo ritrovati tutti incollati davanti a monitor di ogni tipo a nutrirci di news e fake news, il cui confine tra le prime e le seconde era delimitato da una linea sottilissima.
Tutti in casa
In tutto il mondo hanno mostrato il papa pregare in una Piazza San Pietro deserta commentando la drammaticità delle immagini. Bè, personalmente su questo mi sono poco impressionato e ho detto a mia moglie: “Enfatizzano qualcosa che esiste già; per vedere qualcuno che predica in piazze vuote, bastava venire a vedere uno qualsiasi dei miei spettacoli”.
Invece mi ha fatto impressione il presidente Mattarella, quando è apparso a reti unificate per parlare del momento contingente. Lì, con grande pessimismo, ho pensato: “Ecco qua, siamo solo in marzo e il Presidente fa già il discorso di fine anno”.
Anche l’appello di Conte, la sera in cui tutto il Paese è stato dichiarato zona rossa, ha destato sconcerto. Quando il premier ha detto agli italiani che sarebbero dovuti rimanere a casa, quasi tutti hanno risposto sì, e moltissimi hanno aggiunto: “Presidente, tra cassa integrazione, disoccupazione, sussidio, mutua, noi siamo a casa da un pezzo!”.
Ecco, vi ho presentato la prima parte di un monologo che ho fatto ben poche volte perché, come tutti sapete, i teatri sono rimasti chiusi per parecchio tempo e forse lo saranno anche quando Globe Today’s pubblicherà questo mio scritto… o forse no, e non è certo il momento di citare modi di dire tipo “chi vivrà vedrà”.
