Il Caffè degli altri
Viaggio tra la tazzina italiana e il bicchierone americano

Il caffè italiano (degli italiani)
C’è un argomento che, più di ogni altro, riesce a infiammare l’orgoglio italiano. No, non la nazionale di calcio, non la moda, non il Colosseo. Stiamo parlando di lui: il caffè. Quella minuscola tazzina di porcellana che, nella mente collettiva italiana, ha lo stesso valore simbolico della bandiera o dell’Inno di Mameli. Guai a toccarlo. Guai a reinterpretarlo. .Guai, soprattutto, a farlo “all’americana”.
Eppure, è proprio da questa provocazione che nasce un’osservazione affascinante: e se fossero proprio gli americani ad avere una vera “cultura del caffè”? Una cultura diversa, certo. Estesa, stratificata, a tratti esagerata. Ma comunque ricca, articolata, viva. Per affrontare questo terreno minato, facciamo un passo indietro.
Il mito italiano: espresso, orgoglio e ritualità In Italia il caffè è qualcosa di più di una semplice bevanda. È un riflesso del nostro carattere nazionale: breve, intenso, bollente, consumato di corsa ma con eleganza. Il barista è un confidente, il bancone un altare quotidiano. Il caffè si beve in piedi, in trenta secondi netti, tra una telefonata e un pettegolezzo, tra un appuntamento e un ritardo. Lo si sorseggia con sacralità, ma guai a perderci troppo tempo.
Eppure, in tutto questo fervore patriottico, ci sfugge un dettaglio non da poco: quanto ne sappiamo davvero di caffè? Saremmo in grado di nominare tre varietà diverse? Di distinguere un caffè arabica da una miscela robusta? Di capire la differenza tra un’estrazione a caldo e una a freddo?
Se il paragone fosse col vino – altra icona nazionale – ci indignerebbe se qualcuno dicesse che “il vino è vino, punto”. Eppure è esattamente ciò che facciamo noi con il caffè.
Dall’altra parte dell’oceano: il caffè come stile di vita

Negli Stati Uniti, il caffè è un mondo a parte. Non esiste una “tazzina”, non esiste l’idea del sorso veloce al bancone. Esiste il coffee-to-go, il refill infinito, il bicchierone fumante che ti accompagna mentre cammini, lavori, pensi, vivi. Non è un gesto: è un compagno di viaggio.
E non chiamatelo “acqua sporca”. Una tazza di caffè filtrato americano può contenere il doppio (se non il triplo) della caffeina di un espresso. E soprattutto è frutto di una preparazione complessa, ritualizzata, personalizzabile fino all’estremo. Esistono mille varianti, ognuna con dosaggi, temperature, consistenze e aromi differenti. Si può scegliere il tipo di latte, la quantità di panna, se aggiungere sciroppi, spezie, marshmallow o cioccolato bianco fuso. Una Disneyland della caffeina. Ma il cuore di tutto questo universo è uno solo: Starbucks.
Starbucks: l’impero del frappuccino

Fondata a Seattle negli anni ’70, Starbucks ha trasformato il caffè da rituale casalingo a fenomeno globale. Le sue caffetterie sono spazi ibridi tra libreria, salotto e coworking, dove puoi studiare, lavorare, chiacchierare, passare il pomeriggio intero. La bevanda è solo un pretesto per abitare uno spazio. Ecco perché ordinare un semplice “coffee” da Starbucks è quasi impossibile: serve un vocabolario, un’infarinatura di taglie (Tall, Grande, Venti), di combinazioni (latte di soia, di mandorla, d’avena), di topping, e perfino di stagionalità (il celeberrimo Pumpkin Spice Latte, simbolo dell’arrivo dell’autunno).
E poi c’è il Frappuccino, forse l’apice del pop-caffè americano: ghiaccio, latte, panna, caffè e qualsiasi cosa il tuo cuore desideri — dal caramello salato ai biscotti Oreo. Può far sorridere, forse persino indignare i puristi, ma ha creato una forma di socialità nuova, una relazione diversa con il caffè. Una bevanda che non serve solo a svegliarsi, ma anche a farsi vedere, condividere, raccontarsi.
Una pausa diversa: la lentezza che stupisce
In Italia il caffè è istantaneo. È il paradosso della “pausa rapida”. In America, invece, è una compagnia lenta. Il caffè resta con te, si sorseggia nel tempo, mentre il ghiaccio si scioglie o la panna si amalgama. È la bevanda della riflessione, del viaggio in auto, dello studio in biblioteca.
La temperatura, poi, è parte della cultura: il caffè americano è servito rovente. Non si può bere subito. Ci vuole pazienza. Un piccolo paradosso in un paese spesso descritto come frenetico. E poi c’è l’altra metà della storia: il caffè freddo.
Il boom del caffè freddo (anche d’inverno)

Negli ultimi anni, il consumo di iced coffee ha superato quello delle bevande calde in molte catene americane. Non solo d’estate: anche in pieno dicembre, il bicchierone ghiacciato è ovunque. Perché? Perché è pratico, pronto subito, più “moderno”. Permette infinite personalizzazioni (e foto instagrammabili), e ha meno controindicazioni caloriche rispetto a un Frappuccino colmo di panna e caramello.
È diventato anche un’alternativa energetica alle classiche bevande stimolanti. Sorseggiarlo mentre si lavora al laptop è ormai un’icona dell’“American productivity aesthetic”.
Questione di prospettive
Alla fine, forse la domanda giusta non è “chi fa il caffè migliore?”, ma “cosa racconta di noi il nostro modo di bere il caffè?”. In Italia, il caffè è un’identità compatta, chiusa, rituale. Negli Stati Uniti, è fluida, mutevole, aperta. Due culture diverse, due approcci diversi a una bevanda che è, in fondo, solo una scusa per parlare di noi. Forse dovremmo smettere di indignarci per un cappuccino bevuto dopo pranzo o per un espresso servito in bicchiere di cartone. Forse possiamo imparare qualcosa anche da chi, all’apparenza, “non sa fare il caffè”.
In un mondo sempre più globale, il caffè – che unisce continenti, abitudini, generazioni – ci invita a guardare fuori dalla nostra tazzina. E magari, ogni tanto, a provare qualcosa di nuovo. Anche se ha il sapore di cannella e zucca.

Giornalista televisivo USA
