Biennale di Venezia. E’ ancora sperimentazione?
La Biennale di Venezia
Quando si pensa alla Biennale di Venezia non si può che fare un collegamento alla sperimentazione. Sin da quando la Biennale di Venezia nacque con una delibera dell’Amministrazione comunale del 19 aprile 1893, si propose di “istituire una Esposizione biennale artistica nazionale” con l’intento di aprire nuovi spazi per la conoscenza e nuove possibilità per l’esperienza. Sono questi infatti i pilastri su cui la Biennale di Venezia ha sempre costruito gli appuntamenti dedicati a danza, teatro e musica, durante i quali la ricerca artistica va di pari passo con la mission di trasmettere sapienza alle nuove generazioni.
Cosa si intende per sperimentazione?
Ma oggi, nel 2023, cosa si intende persperimentazione? L’intento non può che essere sempre lo stesso, ovvero di provare a fare qualcosa di mai fatto per vedere o ricercare qualcosa di specifico, o per costatare cosa succede, come seguito di un piano teorico. Ma oggi che è stato visto, fatto e provato tutto c’è ancora qualcosa da sperimentare? Forse la risposta sta nel volgersi indietro e andare a ricercare esperimenti già fatti da altri. Allora però non possiamo parlare di sperimentazione, ma di imitazione.
È dunque questo che accade?… In un certo senso sì. Secondo il critico d’arte e architetto statunitense Aaron Betsky infatti, l’architettura di oggi va intesa come “rappresentazione, riutilizzo e riallocazione di immagini, materiali e persino idee”. Non produzione di nuove forme o nuovi edifici, bensì “raccolta di ciò che già esiste e la sua trasformazioni in nuove strutture e nuove relazioni in grado di rivelare modi differenti di vita, uso o esperienza”. Un’ architettura che ha superato le restrizioni della prassi edilizia e ha dato vita a controimmagini di ciò che l’architettura abitualmente produce.
Altered States
E nella danza?… Quest’anno il direttore di Biennale Danza Wayne McGregor ha voluto intitolare il Festival Altered States, prendendo in esame quello stato d’animo particolare e prezioso che si prova prima che si alzi il sipario, quel momento in cui tutto è possibile. Quel momento che l’artista condivide con la platea, muta, che attende di vedere e incoraggia gli artisti al magico momento dell’entrata in scena. Per McGregor in questo momento ci si trova in uno stato fluido, uno stato di incoscienza beata in cui si avvertono sensazioni che provengono da dentro.
In questo preciso istante, immerse nel flusso sanguigno, centinaia di sostanze chimiche attraversano il nostro corpo. Si tratta di sostanze chimiche naturali, che determinano il modo in cui pensiamo, sentiamo, parliamo e agiamo. Ecco che le connessioni tra il cervello, il corpo, la mente e il mondo si rimodellano, si trasformano. E qui che i coreografi di oggi vanno a sperimentare. Che riescano nel loro intento però sembra cosa ardua.
L’esempio del MAM
Prendiamo ad esempio lo spettacolo MÁM di Michael Keegan Dolan, presentato in prima italiana il 20 e 21 luglio al Teatro Malibran. MAM è stato realizzato nel West Kerry Gaeltacht nel 2019 ed è nato dall’incontro di molte persone, sentimenti e fonti d’ispirazione. Il coreografo si rifà ad una sensazione provata mentre il sole tramontava lentamente nel vasto Oceano Atlantico. MAM in irlandese significa passo di montagna, che metaforicamente potrebbe significare come appunto un passaggio, un’esperienza di trasformazione. Quello che rimanda al pubblico però risulta piuttosto confuso e confusionario in quanto dentro gli 80 minuti di spettacolo c’è di tutto. Un tutto visto dagli occhi di una bambina (la giovane figlia del coreografo e di una danzatrice della compagnia) che prima appare un po’ smarrita, ma poi viene coinvolta sempre più in quello che accade sul palco.
Il sipario si apre su una strana scena
Il sipario si apre su una strana scena che vede un uomo (Cormac Begley, virtuoso di concertina) con la testa di capro che suona la sua fisarmonica davanti alla bimba in abito bianco sdraiata su di un tavolo. L’uomo toglierà poi questa grossa testa e la bambina scenderà dal tavolino, mentre dietro di loro cade il telo sul fondale che mostra una lunga fila di persone, i danzatori, sistemati su sedie. Anche loro hanno una maschera che toglieranno per cominciare le danze. Danze frenetiche che si rifanno a quelle popolari irlandesi, ma non solo. All’interno del gruppo si leggono passioni, contrasti, amori etero e omo segnati da baci appassionati, abbracci, che spesso si trasformano in pugni e calci.
Gli occhi della bimba osservano tutto senza dire nulla. Ma perché utilizzare lo sguardo innocente di una bambina per fare vedere tutto ciò in una maniera anche un po’ brutale? Forse perché la provocazione fa parte della sperimentazione, ed allora viene concesso tutto, anche che in scena vengano tolte le mutande alla piccola (da sotto il vestito che, per fortuna, le rimane addosso). Un gesto provocatorio e forte che voleva sottintendere cosa? La lettura che ne ho dato io rimanda alla vittima sacrificale de Le sacre du printemps. Alla fine infatti la piccola salirà in alto avvolta da luce e fumi come in una simbolica ascensione.
Vanishing Place
In un altro spettacolo, Vanishing Place della coreografa napoletana Luna Cenere, presentato il 21 e 22 luglio al Teatro Piccolo Arsenale, si lavora sul sogno, sul ricordo e sull’evanescenza. In questa performance, perché certo non si può parlare di danza contemporanea, c’è il recupero del nudo, sperimentazione già effettuata dal Living Theatre, compagnia teatrale contemporanea fondata a New York nel 1947 dall’attrice statunitense Judith Malina. Niente di provocatorio a livello sessuale, anzi, una nudità nascosta da luci che ne offuscano i contrasti. I danzatori portano sulle spalle grossi pezzi li legno (o cartone) che poi posano per terra inginocchiandosi. Una specie di via crucis.
I loro movimenti sono impercettibili. I pannelli vengono poi sistemati sul fondo creando così dei siparietti dai quali i danzatori, nascosti in due dietro uno stesso pannello, entrano ed escono alterando le loro forme. Un escamotage già usato da altri artisti come l’attore performer Antonio Rezza. Insomma niente di nuovo, solo un recupero da altri, che di per sè non sarebbe così condannabile. Il fatto che rattrista è che sia nel primo che nel secondo spettacolo ci sia ben poca gioia da trasmettere al pubblico, ma solo sofferenza. Corpi chiusi in sè stessi che stanno curvi, che guardano in basso. Corpi che se si cercano è poi per contrastarsi.
Split
È evidente che la relazione con lo spazio che diventa palpabile, porta uno stato di disagio, lo si vede anche in Split dell’australiana Lucy Guerin (senz’altro la creazione migliore), ma che comunque porta Split le due protagoniste a un rapporto che via via diventa sempre più ossessivo e conflittuale data anche la riduzione degli spazi che si vanno a costruire. Lo spettacolo, andato in scena al Teatro del Parco di Mestre il 22 e 23 luglio, intende anche una riflessione che va oltre al rapporto a due: la riduzione delle risorse del nostro pianeta che non ci lascia via d’uscita dalla sua inevitabile tragica traiettoria.
È ancora sperimentazione?
Ma allora dove è finita la gioia della danza? Quel senso di libertà che dovrebbe dare il danzare? Il nostro tempo non genera più sentimenti positivi neanche negli artisti? Sembrerebbe proprio di no, che oltre a non essere più in grado di sperimentare non si sia più neanche capaci di essere felici. E questa è la cosa più grave di tutte.